
“Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare”. E’ la famosa e abusata citazione di Friedrich Nietzsche in “ Così parlò Zarathustra”. Ma chi ha assistito in Africa alle danze in onore degli Spiriti sa che non è solo una citazione.
La danza è leggerezza, è creazione, è gioia, e come tale, a mio avviso, dovremmo rappresentare la divinità. Perché se il Divino non ci solleva dall’ oppressione e dalla pesantezza che con sé portano prima fatica, poi insoddisfazione e infine violenza, come potremmo amarLo e riconoscerci in Esso?

I raggi obliqui del sole tingono di rosso la terra sotto l’ albero di karitè. E’ il veloce crepuscolo africano. Io e Godfried, seduti su brutte poltroncine di plastica, aspettiamo con gli altri che arrivino il re e la regina del vudu. Siamo a Ouidah, in Benin e nell’ambito del Capodanno vudu si celebra la festa in onore di Xanghò, la potente divinità del fuoco e della folgore, terribile e bellissimo, maschile e femminile insieme.
Distrugge con la violenza del fulmine ma è capace della tenerezza infinita della pioggia che con la sua carezza sazia la terra riarsa. Tutto è pronto: i tamburi bata, il cui suono evocherà gli Spiriti, gli adepti che si aggirano emozionati ed eccitati.

E finalmente arrivano: lui, il papa del vudu, piccolo e anziano, lei, giovane e sorridente, morbidamente vestita nell’azzurro di Mami Wata, di cui è sacerdotessa. Si siedono vicino a noi e la folla si accalca. E’ la folla usuale dei villaggi africani, dove brillano i sorrisi bianchissimi dei bambini che accorrono a frotte e madri un po’ ovunque con i neonati al seno o legati col pagne sulla schiena. I suonatori prendono posto a cavalcioni sui lunghi tamburi e l’aria comincia a vibrare al suono ipnotico del ritmo sacro a Xanghò.
Avanzano a piedi nudi i ragazzi più grandi: sono poco più che adolescenti, ma già orgogliosi del ruolo che rivestono. Sui corpi alti e asciutti indossano amplissime gonne colorate che fanno ruotare ogni qualvolta i passi della danza lo richiedono. Muovendo l’ascia bipenne, simbolo di Xanghò, avanzano e girano, girano e avanzano in un movimento rotatorio sempre uguale, intensificato dal roteare vorticoso delle gonne. Sulle spalle portano un pesante cilindro contenente polvere da sparo. Esibiscono la loro bravura facendolo sobbalzare a ritmo. Dato il peso, è un’ esibizione di forza fisica oltre che di bravura nella danza. Li seguono i fratelli più piccoli, anche loro adepti. Hanno appena perso i denti da latte e si guardano l’un l’altro timorosi di sbagliare. Per loro tutto è in miniatura: le ampie gonne e il cilindro da fare sobbalzare sulle spalle. I più bravi si esibiscono davanti al re, strappandogli un sorriso compiaciuto e piccoli doni in denaro.

Dietro sopraggiungono danzando le donne anziane che tengono in mano, facendoli oscillare a ritmo i “ bambini di legno”, le statuette in cui si incarnano i gemelli morti alla nascita. Secondo la credenza non sono morti, si sono solo allontanati per procurare ricchezza alla famiglia che li ricorda e li celebra nell’ effigie di legno esattamente come se fossero vivi.
Tutti danzano, giovani, bambini e anziani, vivi e morti, chi appartiene al mondo visibile e chi a quello invisibile, esseri umani e Spiriti divini insieme e in questo vortice, passato, presente e futuro si fondono per diventare energia pura. Niente è tanto fisico e materico quanto la danza vudu e contemporaneamente niente è più incorporeo perché i corpi diventano luce, vibrazione. L’ atmosfera si dissolve in gioia pura. Quanto è bello e liberatorio credere in un dio che danza con noi e che come offerte e preghiere chiede danze! Niente come la danza libera e rinnova il mondo. Luciana Riggio